di Giovanni Amenta

Anche nella morte, i due giudici simbolo del riscatto siciliano dalla mafia, si ritrovano uniti, come nella vita e nel lavoro, P. Borsellino e G. Falcone.

Le tremende notizie, a distanza di pochi giorni, della morte violenta di due grandi uomini, ci devono portare a riflettere come si può arrivare a sacrificare la propria vita in nome del senso del dovere, della moralità e dell’etica, valori vivi che ci devono accompagnare ogni giorno perché ognuno faccia sempre il proprio dovere, sempre, nel rispetto delle regole… quelle stesse regole che oggi nel 2009 sono spesso traditi da chi rappresenta indegnamente lo Stato e le sue Istituzioni!

Morti per un’idea: una Sicilia libera dalla mafia e dal malaffare, che nasceva e nasce dal connubio politica- mafia !

Sembra che quei ricordi siano lontani, in realtà bisogna tenerseli ben stretti perché la società civile d’oggi ha bisogno di quei ricordi per contrastare in modo democratico il mal costume e la perdita di valori imperante dal 1994.

Tratto dalla Biografia del giudice Paolo Borsellino...

“Gli viene offerto di prendere il posto di Falcone nella candidatura alla superprocura, ma Borsellino rifiuta, sebbene sia consapevole che quella sia l’unica maniera che ha per condurre in prima persona le indagini sulla strage di Capaci. Così risponde al Ministro: "...La scomparsa di Falcone mi ha reso destinatario di un dolore che mi impedisce di rendermi beneficiario di effetti comunque riconducibili a tale luttuoso evento....". Resta a Palermo, nella procura dei veleni per continuare la lotta alla mafia, diventando sempre più consapevole che qualcosa si è rotto, che il suo momento è vicino.

Ad un mese dalla morte dell’Amico Falcone, tra le fiaccole e con molta emozione parla di lui, cerca di raccontarlo: "Perché non è fuggito, perché ha accettato questa tremenda situazione....per amore. La sua vita è stata un atto d’amore verso questa città, verso questa terra che lo ha generato. Perché se l’amore è soprattutto ed essenzialmente dare, per lui, amare Palermo e la sua gente ha avuto e ha il significato di dare a questa terra qualcosa, tutto ciò che era possibile dare delle nostre forze morali, intellettuali e professionali per rendere migliore questa città e la patria a cui essa appartiene. ..Sono morti tutti per noi, per gli ingiusti, abbiamo un grande debito verso di loro e dobbiamo pagarlo, continuando la loro opera...dimostrando a noi stessi e al mondo che Falcone è vivo".

Vuole collaborare alle indagini sull’attentato di Capaci di competenza della procura di Caltanissetta. Le indagini proseguono, i pentiti aumentano e il giudice cerca di sentirne il più possibile. Arriva la volta dei pentiti Messina e Mutolo, ormai Cosa Nostra comincia ad avere sembianze conosciute. Spesso i pentiti hanno chiesto di palare con Falcone o con Borsellino perché sapevano di potersi fidare, perché ne conoscevano le qualità morali e l’intuito investigativo. Continua a lottare per poter avere la delega per ascoltare il pentito Mutolo. Insiste e alla fine il 19 luglio 1992 alle 7 di mattina Giammanco gli comunica telefonicamente che finalmente avrà quella delega e potrà ascoltare Mutolo.

Lo stesso giorno Borsellino va nella casa del mare, a Villagrazia, con la scorta. Si distende, va in barca con uno dei pochi amici rimasti. Dopo pranzo torna a Palermo per accompagnare la mamma dal medico e con l’esplosione dell’autobomba sotto la casa, in via D’Amelio, muore con tutta la scorta. E’ il 19 luglio del 1992.

La morte

Borsellino ha un forte rapporto con la morte; è presente in ogni parte della sua vita.

Teme per gli altri, per la sua famiglia, per I ragazzi della scorta. E’ molto protettivo con i suoi collaboratori e con la sua famiglia. Parla spesso della morte un po’ per scherzarci sopra un po’ per ricordarsi sempre che non è poi così lontana. "Se muoio adesso, il mio compito l’ho svolto".

Ha visto morire molte persone, uomini di valore morale ed intellettuale e sa benissimo di non essere esente da una fine simile. Eppure a volte scherza con la morte, se ne prende gioco, ci ride sopra con un unico cruccio: quello di aver preparato i propri figli ad affrontare la vita.

"Non sono né un eroe né un kamikaze, ma una persona come tante altre. Temo la fine perché la vedo come una cosa misteriosa, non so quello che succederà nell’aldilà. Ma l’importante è che sia il coraggio a prendere il sopravvento...Se non fosse per il dolore di lasciare la mia famiglia, potrei anche morire sereno".

Con cordialità,
Giovanni Amenta

3 commenti

  1. Enzo // 16 luglio 2009 alle ore 13:38  

    Spero che per la Sicilia arrivi presto il giorno in cui persone che svolgono il proprio dovere con abnegazione, per "puro spirito di servizio", come diceva Falcone, non siano più considerati "eroi", eccezioni, ma diventino la regola.

  2. Anonimo // 20 luglio 2009 alle ore 12:20  

    Quando lo stato uccise e raccolse i frutti del proprio operato....

    stuppa

  3. Nino Campisi 1958 // 23 luglio 2009 alle ore 01:02  

    E' successo molte volte a noi tutti di vantarsi di essere italiani.Tutti ci sentiamo fieri e unici,magari dopo una bella vittoria di un mondiale,oppure per le bellezze del nostro patrimonio artistico.Ma può bastare questo per sentirsi fieri di una nazionalità,quando a governare cè gentaglia che vive ai margini della legalità e magari decide di eliminare chi si ribella al loro sistema

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